Mauro Liggi, Alla terra i miei occhi, Interno Libri Edizioni, 2024
(con prefazione di Anna Segre)
I versi di Mauro Liggi somigliano ad un sudario che invano tenta di nascondere il fantasma della madre, sebbene non sia la desolazione a dettarne il tono, quanto piuttosto il tentativo di affidare la morte o l'assenza (come pure accade nelle poesie dell'amore naufragato) a quella resurrezione che è della memoria, concepita come un oltre in cui infuturare quanto e quanti non sono più nella dimensione del presente.
Ma la volontà di ricominciamento, “l'insopprimibile attrazione/ della pienezza che chiama”, lo slancio del cuore che vorrebbe fluire di più nella luce, urtano senza sosta di contro la presenza ossessionata delle tenebre e del male (l'aggettivo 'nero' è il più ricorrente in questa silloge, e compare ben diciassette volte nel testo a pagina 31!) e quel costante tono di sconfitta che sembra bordare a lutto anche le immagini più solari e più intensamente erotiche, così che la catastrofe amorosa diviene una seconda declinazione della perdita, all'interno del tòpos letterario dell'unità di Amore e Morte, della madre.
Fra l'altro, la donna rappresentata da Liggi conserva tratti di maternità non solo nell'accoglienza amorosa del grembo, ma anche in quell'invito all' “allattamento”, al nutrimento reciproco, che sfiora il cannibalismo mistico dell'eucarestia.
Il solo gesto risolutivo della tensione tra memoria che trattiene dolorosamente luoghi, figure, emozioni (anche le più drammatiche e sconvolgenti), oggetti (spesso trasformati, attraverso un processo di simbolizzazione, in veri e propri feticci) e la necessità di evitare l'intrappolamento definitivo nel passato, è quello creativo che può oltrepassare la soglia del tempo tra il prima e il dopo, metaforizzando ogni elemento sentimentale in un divenire concettuale e verbale, che Anna Segre nella sua prefazione definisce «una forma di trascendenza, di preghiera».
L'essere stati diventa, in questo modo, un essere ancora, come racconta il testo (pag. 25) in cui l'autore (che, in quanto medico è abituato a fronteggiare la malattia come limen tra la fine e la guarigione) scrive: “Nella stanza dove ti ho visto morire/ ora piange un bambino/ nel letto del tuo rantolare / una madre lo allatta al seno”, non solo sovrapponendo le due figure materne, ma creando tra loro una continuità ideale, così come tra esse e la figura dell'amata, resa sacra attraverso la pronuncia di espressioni quali “grani di rosario” e “il piacere è un salmo” (pag. 43), in cui la memoria appare anche di natura culturale, avendo come termine di riferimento le Sacre Scritture e, in particolare, l'eros immaginoso, pulsante, “semplice/ nudo fragile felice” (pag. 36), del Cantico dei Cantici, come a dire che non esiste corpo poetico che non sia una fusione di emotività, cultura, scrittura, canto:
Scrivi di te in me
sul foglio liso imperfetto
del mio petto tremante
costole sentieri d'inchiostro
calamaio per le tue dita ogni incavo.
Leggerò
consonanti sghembe
vocali tondeggianti
mi chiamerò per nome
polmoni mantice di fisarmonica
soffiano via la muffa
dai miei abbracci dimenticati in soffitta.
E, toccando il corpo dell'amata che a sua volta lo tocca, proiettarsi insieme nell'intoccabile, trasgredendo il divieto cristico: Noli me tangere, e celebrando una mistica dell'immanenza.
Franca Alaimo
15 Aprile 2024